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La pittura di Antonio Catalano visita nuove meraviglie

Un palazzotto del ‘700 in un rosso Monferrato di mattoni con scorci tra i vigneti.
Ultimi inquilini, i piccoli di un asilo infantile. Ed è facile immaginarli nel giardino giocare all’ombra del bel pero.
Antonio si dirige e ci sospinge verso un ingresso laterale della casa.
Apre una porta che potrebbe portare in un magazzino o in uno scantinato.
Umidità, e una frescura esagerata per l’aria bruciante di luglio che avvolge il giorno, ci viene incontro e ci penetra.
Si scende, si scende e la seconda porta si apre su una immensa sala, una galleria, una enorme cantina, nelle assopite radici della casa antica.
Un senso di levità avvolge l’aria del luogo tanto sotterraneo e in certo modo severo.
Come si fosse entrati in un acquario si è presi e sollevati di poco dal pavimento cosparso di quella sostanza impalpabile che permette alle bocce di correre nella lunghezza.
Le nostre gambe si confondono con le code di sirene, si vestono di gonne ampie, lunghe.
Sovrapponendosi alle figure tese verso il cielo, o capovolte, danzano nella fluidità degli elementi. Stupore, gioia, spaesamento. Nuova sorpresa. Quasi un capogiro e avvertiamo che Catalano sta vivendo una straordinaria, giovane epoca, per sé e per noi. E lo fa con la pittura pura, promuovendo in una dolce e seducente urgenza il nostro ingresso al racconto nella sua sorprendente genesi.
Un manto azzurro pallido e i chiarori delle presenze emergono dalle immense superfici. Rotondità di varie misure vagano nere nel grande fiume del racconto.
Una pittura a velo, soave come una carezza e che lascia continuamente percepire sulla pelle del muro ciò che lo costituisce, corre in negativo e dà forma alle visioni.
L’artista non dipinge le figure alle pareti, non copre di colore i corpi, al contrario ascoltando il racconto che già è implicito tra gli umori e le tessiture della materia concreta, aiuta e assiste il loro manifestarsi. Dà una mano all’apparire delle forme intraviste nelle tracce umide e nei colori degli impasti terrosi, dentro i fiori cristallini del silicio.
I grigi, gli ocra, i verdastri delle muffe sono in realà i colori della grande opera e diventano pittura, diventano uomini e donne e animali nelle immagini che evocano gli antichi miti, nelle vaghe presenze di un mondo biblico.
La sua mano, assecondando i ritmi narrativi che il muro gli detta, costruisce col pennello i fondi bianchi e celesti che sono cielo, acqua, luoghi di sospensione, di viaggio, di galleggiamento. Ne nasce un racconto disincarnato pittoricamente. Ed è stupefacente l’efficacia di questi segni di pittura ignorante come l’autore stesso la chiama.
Certamente la forte attrazione del luogo, la condizione speciale di potersi calare con pennelli e bagaglio dell’immaginario nel ventre della terra, il percepirne un valore di sacralità, cattedrale profana dell’antico culto del vino, questo, tutto e altro in congiunzione al temperamento momentaneo dell’artista proietta il suo gesto verso la costruzione di una narrazione mitologica fatta di immagini imponenti e semplici, carica di simboli nella visibile leggerezza.
Di Antonio Catalano conosciamo bene quel sentimento umile dello stupore con cui si avvicina alle piccole creature. Ci hanno toccati i suoi omaggi e la devozione, che è amore delicato ma non ingenuo, a ciò che di sacro sta nelle piccole cose. In ogni vivente, nella foglia di una quercia, nella piuma trovata, nel piccolo seme, fino al sentimento di un musicista, allo stupore di una maestra, all’oblio di un vecchio portoghese di Evora, egli raccoglie una benedizione e se ne fa interprete. Raggiunge il senso divino dell’esistere e ce lo trasmette. Siano filastrocche, aforismi, racconti in prosa, pittura, scultura, o musica, un dialogo lungo, infinitamente infinito.
Solo ora però, nelle immagini che ci vengono incontro nel galleggiamento del nuovo spazio, in quella materia nata dalle mani estive di Antonio Catalano, e dalla nuova freschezza del suo spirito, incontriamo il Dio. Figura concreta, di forza elementare generata in un’ampia porzione di cielo celeste, sopra la porta centrale al fondo della grande sala.
Un’entità capovolta a cui gli uomini non saggi, bensì giudiziosi, rendono i doni che da lei hanno ricevuto e che non sono stati capaci di amare e trasformare con intelligenza in altrettante benedizioni. Un Dio svuotato, vulnerabile che non ha più nulla da dare, cade a terra pesante del suo stesso vuoto. In un celeste pallidissimo, vapore diafano, i corpi sospesi degli uomini cercano contatto con quel Dio tra steli lunghi di fiori neri.
A lui rendono frutta, nuvole, cielo, un caimano. Sono grati per la fiducia, ma pronti all’ammissione del fallimento.
“Siamo solo parte del tutto, siamo dentro lo spirito di un albero, di un sasso, i nostri occhi vedono con gli occhi di una formica, di un elefante. Non possiamo essere padroni”. Arroganza, superficialità, mancanza di gratitudine, di sensibilità, distrazione hanno portato l’umanità alla perdita dei cuori, all’alterazione della coscienza.
E il viaggio pittorico di Catalano è la risposta alla necessità di interrogarsi sulla ricerca di un nuovo cuore, sull’inevitabile ritorno allo spirito delle cose.
Il grande affresco alle pareti si snoda con un andamento circolare e narrando senza fine della vita e della morte, attraversa mondi che, nella assoluta libertà immaginativa dell’artista, fanno affiorare episodi del libro della Genesi, ma anche storie personali avvolte nello sgomento e nel dolore, e visioni di chiara origine leggendaria.
Permeato di quel torpore che impone alla mente di tacere, sospeso tra veglia e sonno al di fuori di ogni ordine e dimensione, il racconto ci consegna immagini legate ai temi archetipici, l’esodo, il naufragio, l’uccisione del drago, la meditazione della montagna.
Dentro le vicende che lo vedono viandante, naufrago, costruttore, portatore di uova, sirena, e mistico, l’uomo di Catalano si muove al di sopra di uccelli e pianeti, cammina in compagnia di elefanti, o preceduto da un volo lineare di uccelli.
In uno stato di serena accettazione l’artista percepisce le sue figure allungarsi, dilatarsi, comporre danze armoniose con gesti mai spigolosi, le braccia si accostano disegnando forme circolari, i corpi si snodano come nastri di un aquilone nell’aria, come frange di meduse nell’acqua.
La ricerca del nuovo cuore non è disperazione, non è nichilismo, è dramma, è fatica, è cammino di ascolto dei segnali, di attenzione alle coincidenze, nella certezza che ogni incontro va accolto e vissuto per la sua preziosità.
E’ anche gioco gioioso con le bocce che tagliano l’aria, con la curiosità nel cuore. Emerge qui l’anima dei bimbi che hanno passato i loro giorni in questa casa quando era asilo? Se socchiudiamo gli occhi li vediamo rincorrersi nel giardino sopra.
La storia personale dell’artista entra così con evidenza nell’impianto narrativo della Cappella dei Meravigliati.
Lo dicono le parole che accompagnano la scomparsa di un giovane amico, fratello, scritte a mano col pennello sopra la porta di ingresso.
ogni tanto può anche arrivare la notte
buia come quella nelle tane delle marmotte>br> la notte quella senza vento
che cade nel cuore con assurdo sgomento
e’ in quella notte che noi cerchiamo di capire quello che si può solo sentire
E lo dice lo spazio bianco, nel candore del silenzio solo attraversato da un volo, nel vuoto che si produce per quel raccoglimento meditativo che annuncia una nuova via, e in cui sta forse la risposta a tutti i perché.
Un progetto rigenerante, per l’uomo alla ricerca di una condizione rinnovata di coscienza, prende forma e riempie i futuri giorni e le stagioni dell’artista.
“ Devo fare ! Devo raggiungere il luogo che da bambino ho contemplato. Il monte Chaberton mi attende, mi deve dire”.
Nel luogo sotterraneo in cui l’artista è sceso portando i colori perché gli spiriti parlassero, si è disegnato il profilo della montagna. Non è esplicito nella materia del racconto, ne è l’anima.
Si fa visibile solo in quella immagine fotografica che Maurizio Agostinetto ha catturato lasciandosi trasportare nella visionarietà di un attimo. Il braccio dell’artista che dipinge proteso verso l’alto e la sua ombra. Il pennello che porta il colore è la vetta del monte.
L’incontro tra le ombre della fisicità e le entità sottili tracciano così i nuovi orizzonti dell’esistenza. Potrebbe essere anche per ciò che le due opere, quella pittorica di Catalano e quella fotografica di Agostinetto si danno appuntamento nello stesso luogo.
credits diritti riservati © Antonio Catalano