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www.casadeglialfieri.it Casa degli Alfieri
Universi sensibili di Antonio Catalano
Armadi Sensibili  
Le Lucciole batticuore  
Popoli  
Padiglioni delle meraviglie  
Sagra del meraviglioso mondo di Odisseo  
La bibbia dei semplici  
Io sono patrimonio dell'umanità  
Le cappelle dei meravigliati  
 
Cappella a Arzo  
Cappella a Zurigo  
Cappella a Parma  
Cappella a Guazzolo  
Presentazione di Marialisa Leone  
Presentazione di Don Vittorio Croce  
Presentazione di Lorenza Zambon  
Presentazione di Luciano Nattino  
Presentazione di Carlos Laredo  
Presentazione di Marco Bianchi  
Presentazione di Claudia Ponzone  
Grotte  
 
Altre opere  
Il viaggio degli universi  
La casa sensibile  
Spettacoli  
La giostra del tempo  
Cantico dei semi  
Carnevale  
La giostra delle meraviglie  
Le valigie dei fili invisibili  
Mondi Fragili  
Concerto fragile  
Idee sussurrate  
Casa degli alfieri  
Presentazione di Don Vittorio Croce
C’è un epiteto piemontese un po’ desueto perché forse troppo raffinato: anciarmà, che corrisponde al francese encharmé. Il significato ne è evidente: incantato. Adesso, e forse da tempo, è usato come insulto, tant’è che l’ho raccolto nel libretto Dessi dij nòm. Perché per il piemontese comune “incantarsi” davanti a qualcosa o qualcuno non è un pregio ma un difetto: l’importante è lavorare, produrre, guadagnare, non stare incantati, meravigliarsi.
Ecco, Catalano, se non si offende, è precisamente un anciarmà, encharmé, un meravigliato come lui stesso si definisce, o forse soltanto vorrebbe essere. Perché non sembra affatto facile meravigliarsi in un mondo indaffarato e preoccupato per tutto: per il tempo, i soldi, la salute, la bella figura, il vestito, i capelli, le scarpe, gli studi, il successo...
Catalano è capace di meravigliarsi, lo vuole restare come un bambino. Per questo forse ha saputo scoprire in una cantina monferrina diventata campo da bocce una cappella. L’ha chiamata “cappella dei meravigliati” forse pensando sussiegosamente a Matisse, ma forse soltanto fantasticando come un bambino davanti alle macchie di questo locale scavato nel tufo monferrino, quello grigio-azzurrino che tiene l’acqua a favore della vite che vi deve crescere. Le macchie sono nuvole che diventano un racconto. E naturalmente un racconto sacro, trattandosi di una cappella.
Tutto comincia dalla festa e con la festa finisce. C’è da stupirsi? No, per poco che uno conosca la Bibbia. E’ vero che Dio comanda all’uomo di lavorare la terra sudando e alla donna di generare figli soffrendo. Ma lo ha fatto perché i due nostri progenitori hanno rifiutato di fare festa con lui: erano in un giardino! La festa comunque è soltanto rimandata alla fine del lavoro. Anzi, intanto bisogna tenersi in allenamento facendo festa davanti a Dio almeno una volta la settimana, anche danzando come faceva addirittura il grande re Davide.
Diceva don Franco Dalla Valle, vescovo in Brasile, mancato purtroppo pochi mesi fa: “Chi adesso non si allena a fare festa, ma è capace solo di lavorare e preoccuparsi, rischia poi di annoiarsi tremendamente in paradiso! Perché là ci sarà soltanto festa”.
Il naufragio con la barca può dunque ben essere la scena del diluvio universale: uomini e donne a testa in giù perché Dio si era pentito di averli creati, capaci soltanto di costruire torri per scalare il cielo e di fare la guerra dividendosi anche nelle lingue. La danza comunque prosegue, secondo la sequenza di Catalano, con le sirene sottoterra, o dentro il mare o addirittura volteggianti in cielo, fate voi. Se andate nella chiesetta romanica di Mongiglietto (significa monte del giubilo) a Cortazzone, trovate sui capitelli una serie di sirene a due code con volto umano: lì sembra che l’antico lapicida mezzo contadino le abbia scolpite come immagine della tentazione, perché pensava, erroneamente, che la vita è condanna al lavoro; ma forse amava anche rappresentarle come prospettiva di festa futura, nel mare dell’eternità.
Certo, nel mare ci può essere, anzi c’è di sicuro, lo conferma la Bibbia, il terribile mostro Leviathan. Ma una donna lo può infilzare come se fosse un povero verme, con molta più facilità rispetto a San Giorgio nell’uccidere il drago. E poi ci sono quelli che, nell’umanità con la testa sprofondata nel lavoro per arricchire, restano a guardare la luna come la donna meravigliata con la testa fra le nuvole. E poi quelli che raccolgono uova, un lavoro semplice, di poca fatica, ma che apre la possibilità di nuove vite, che si fanno da sé, senza bisogno di lavoro umano. La vita non è tutta da Dio,anche mediante la madre terra? A questo punto è proprio dio (sì, con la minuscola) a entrare in scena. Un dio rovesciato, perché svuotato dei suoi doni che gli uomini si stanno accaparrando bramosamente. Gli uomini giudiziosi capiscono che è proprio così: un dio che è capace di donare senza ritorno, senza pretese. Ma proprio questo è il vero Dio (adesso con la maiuscola), il Dio raccontato da Gesù che si è svuotato per noi della sua gloria, rivelando con la croce l’onnipotente impotenza dell’amore.
Il peccato è proprio pensare Dio a propria immagine e somiglianza, come il Potente che ama essere riverito con donativi magari sottratti ai fratelli. Questo è sbagliare strada, anzi non avere più nessuna strada. L’importante è non disperare, sperando invece che la strada c’è e che la festa è possibile, come tornano a ricordarci le sirene danzanti.
I viandanti pesanti e lenti, che faticano ad andare avanti perché troppo obesi o che addirittura vanno indietro, siamo noi, quando stentiamo a credere possibile la festa, che nasce dalla capacità di meraviglia. Ma qualcuno arriva a tanto, è il viandante snello che si trova davanti al muro bianco per poter immaginare quello che sembrava impossibile. La strada che porta alla festa, la meraviglia, concerne qualsiasi cosa, dalla foglia che cade alla stella che brilla, ma punta in buona fine all’incontro, alla danza, al girotondo. A trovare nell’altro, chiunque egli sia, un altro me stesso.
Forse vedere tutto ciò nella cantina di Guazzolo è troppo. E’ certamente troppo! Ma appunto è lecito come al bambino che guarda le nuvole e ci vede quello che desidera vedere. Guardare le nuvole è occupazione da bambini e da poeti rimasti bambini. Come Nino Costa, il quale, a chi gli chiedeva che cosa avesse fatto di buono in tutta la sua vita, rispondeva:”I l’hai guardà le nivole, le nivole ch’a van ‘nt’el mez del cel”.
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